Crederci sempre, senza arrendersi, senza “gettare la spugna”. Si, ma poi? Si può vivere solamente credendoci e sperandoci?
Ci credi, vai avanti, sorridi, speri, corri, rincorri, vivi. Ma fino a che punto vale la pena crederci? Fino a che punto si può vivere una vita in cui speri che il domani sia migliore?
Dicono che una delle basi del vivere sereno sia proprio quella del vivere in funzione di un sentimento di speranza, in funzione del non arrendersi e gettare la spugna, ma, al contrario, di credere che un domani migliore può, fisicamente, essere possibile, lavorando affinché accada ed affinché possa concretizzarsi.
Adesso, aldilà del discorso del dover lavorare per costruirsi un futuro migliore, che rientra in una più generale ottica di automiglioramento e perfezionamento della propria vita futura – il che non può essere che una cosa utile a se stessi – resta in bilico il discorso del non capire quanto tale speranza possa aiutarci nel concretizzarsi di quei sogni che desideriamo, di quelle chimere che, in qualche maniera, ci ritroviamo a rincorrere, a desiderare, quando preghiamo, in silenzio, affinché quel nostro sogno, quel nostro intimo desiderio s’avveri.
Quanto, insomma, il credere passivamente che qualcosa cambierà, se mai cambierà, ci aiuta a far si che qualcosa, poi, concretamente si attivi? Non c’è, a rigore di logica, una risposta certa ed univoca: c’è una risposta che varia da persona a persona, che dipende dalla sensibilità di ognuno, dai tempi di ognuno, e dalla voglia di mettersi in gioco del singolo, affinché ci sia una produttività nella realizzazione personale e di ciò che si desidera.
Certo, un sognatore, una persona che si proietta al domani, che ci spera, e che lavora affinché i propri sogni non restino tali ma diventino reali, verosimilmente, ha una marcia in più rispetto a chi, staticamente, attende qualcosa che non saprà se accade… Ne vale la pena?