Il "Quiet Quitting" come conseguenza della frustrazione lavorativa

Il Quiet Quitting come conseguenza della frustrazione lavorativa

Il “Quiet Quitting” come conseguenza della frustrazione lavorativa: badate bene perché c’è, davvero, ben poco da ridere…

Il “Quiet Quitting” come conseguenza della frustrazione lavorativa: una situazione che va seriamente attenzionata!

Sempre più spesso, gli Opinion Leader cercano di muovere l’opinione delle masse verso ciò che fa loro più comodo. È una storia antica, che esiste, almeno, da quando esistono i leader d’opinione, capaci di “muovere” il “sentiment” generale a loro piacimento (affermazione, questa, tutta da dimostrare, anche perché da ormai tanti anni la teoria dell’Ago Ipodermico è stata ampiamente sconfessata!)

In questo periodo, ad esempio, sempre più spesso torna, in maniera prepotente, il concetto di “Quiet Quitting”: stiamo parlando di quella lenta, progressiva ed inesorabile perdita di interesse e di attaccamento, da parte dei lavoratori, al brand per cui si lavora. I lavoratori, insomma, si sono ampiamente scassati le balle di fare straordinari e spendere la loro professionalità senza vedersi riconosciuti gli extra che spetterebbero loro, quantomeno come puro incentivo alla produzione.

A ben considerare, si tratta di una pratica che nasconde tratti ancora più tossici sul posto di lavoro: un dipendente che non sta bene, che non vive bene la propria posizione economica, che non si sente valorizzato e che capisce che non ha spazio o speranza di crescita professionale, semplicemente rimane sul posto di lavoro esclusivamente perché deve campare. Si trascina stancamente senza più nessuno stimolo, e si limita a fare lo stretto indispensabile, magari sperando che la giornata lavorativa passi presto, così da mandare a farsi “friggere”, diciamo così, quelle mura che diventano una gabbia dorata.

Il Quiet Quitting come conseguenza della frustrazione lavorativa

Si tratta di un fenomeno che molti imprenditori, quasi con superbia ed egoismo, tendono a sottovalutare, ma c’è davvero ben poco da ridere: secondo il rapporto “State of the Global Workplace 2024”, un lavoratore su quattro (25%), in Italia, si sente disimpegnato dalla propria azienda. Ed il dato fa rabbrividire se paragonato alla media Europea del 16%!

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E per gli imprenditori menefreghisti, le brutte notizie non sono finite qui: uno studio del Conference Board ha calcolato che la totale mancanza di coinvolgimento emotivo da parte dei dipendenti arriva a costare qualcosa come 500 miliardi di dollari all’anno alle imprese statunitensi. Dato che potrebbe arrivare fino a 1,5 trilioni di dollari su scala mondiale.

Ci sarebbe molto da riflettere, ma, in maniera cosciente, mi rendo conto di quanto, una fetta importante di imprenditori, se ne freghi completamente del benessere dei dipendenti: mi sono interrogato sul cosa spinga a mettere in atto un simile comportamento, e non so bene capire se si tratta di una questione di natura culturale, di semplice “forma mentis” o di pura e semplice furbizia.

Sta di fatto che è un dato di fatto imprescindibile, ma, al netto di questo, la solita fetta di imprenditori furbetta continua a dare la colpa a fattori esterni, esogeni, perché “sia mai” che possa essere colpa della loro scellerata gestione.

Durante il periodo della pandemia da Covid 19, le aziende, spesso, hanno aumentato la produttività a livelli importanti: peccato che ad un aumento della produttività non siano corrisposti bonus e promozioni conseguenti ai profitti record.

A quel punto, gli onesti lavoratori si sono rotti letteralmente le scatole, e hanno iniziato ad abbassare il loro rendimento: le aziende, pur di non fare “mea culpa”, hanno trovato il facile capro espiatorio dello “Smart Working”. La colpa era del telelavoro.

A distanza di tre anni dai ritorni in presenza, si sta giocando a far passare il Quiet Quitting come pigrizia, come comportamento negativo, spingendo le persone verso il più totale sfruttamento senza capacità di proferire parola o non essere d’accordo.

L’overperforming, se così possiamo definirlo, a cui le aziende sono state abituate, le aveva letteralmente fatte adagiare sugli allori: che bisogno c’è di investire se i profitti sono triplicati? Che me ne frega di migliorare se i dividendi aumentano a dismisura?

Tutto chiaro, se non fosse per un dato: negli ultimi due anni, 100.000 giovani se ne sono andati dall’Italia. Delle due, una: o i giovani vanno all’estero perché sanno di non fare un cacchio dalla mattina alla sera, o, più chiaramente, vanno all’estero perché trovano condizioni sicuramente migliori (magari non eccellenti, perché anche l’estero non è che sia tutta questa Bengodi, ma meglio di qua!)

È colpa degli imprenditori tossici se la forza lavoro si sta ribellando: li senti dire che “tu non puoi capire perché non sei imprenditore, tu non lo puoi immaginare”, ed hanno, probabilmente, anche ragione, ma questo non li autorizza a trattare i loro dipendenti come muli da soma, a non avere alcun rispetto dei pagamenti, a lasciare la gente sul lastrico aspettando che arrivi lo stipendio.

Sapete cosa significa essere sotto di due, tre stipendi? Sapete cosa significa farsi un mazzo tanto per scoprire di non essere mai valorizzato ma costantemente umiliato da persone frustrate che scatenano la loro frustrazione sui dipendenti al culmine del loro infimo delirio di onnipotenza?

È colpa vostra se la forza lavoro ha detto basta. E non avete ancora capito che non soltanto, in questo modo, danneggiate anche quegli imprenditori seri che, davvero, rispettano i loro sottoposti, ma vi fate del male da soli.

Perché senza dipendenti, i guai restano a voi. Che vi piaccia o no!

(Immagine tratta dal Web)

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