Vivere sapendo di essere spenti dentro

Vivere sapendo di essere spenti dentro

E’ un dolore grande vivere sapendo, nel proprio profondo, di essere spenti dentro, sapendo che quella luce si è spenta, ormai, da fin troppo tempo…

Vivere sapendo di essere spenti dentro: è un dolore che non si può spiegare con semplici parole, perché è un concetto che solo chi lo vive può comprendere appieno.

E’ guardare fuori, un sabato sera, e vedere che il mondo, fuori, festeggia, vive, si diverte, sorride, brinda, vive la movida, e tu sei chiuso tra quattro maledette mura, a guardare il niente impersonificato in serate vuote, ascoltando, in lontananza, l’eco di musica e risate, di gioia, di balli, di spensieratezza. Esattamente tutto quel che tu non hai, o forse non hai più.

Si diventa, involontariamente – o forse no – quasi come delle statue di sale, quasi come castelli di sabbia che cadono a blocchi, come la sabbia bagnata che si sgretola sotto i piedi, come rocce che franano e portano via con se ogni barlume di equilibrio, ogni senso di appartenenza, ogni appoggio possibile: ti ripetono “massì, non deprimerti, in fondo sono solamente convenzioni sociali… Sai quanta gente vive le tue stesse sensazioni in questo momento?” …E sai quanto me ne fotte a me?

Sono io che in questo momento vivo sensazioni che non riesco neppure a spiegare, non tu che mi fai la solita morale, quasi come se avessi bisogno del tuo consiglio che nessuno ti ha chiesto: il tempo passa in una dimensione che non comprendi più, come se fossi calato dentro un contenitore fluido, ma non abbastanza fluido da permetterti di galleggiare. Quasi delle sabbie mobili, che distruggono il senso vero del tuo tempo, perso ad osservare quel che non c’è più, mentre la mente va, ancora una volta, a serate di festa, di gioia vera, di spensieratezza, di balli, di suoni, di risate, di cibo, di batticuore positivo, di adrenalina, di gioia vera e fremente, di mille parole, di musica, di nottate passate a tirar tardi e raccontarci di noi, del nostro tempo, della nostra vita, del nostro vivere, del nostro amarci, del nostro scoprirci.

Diventi arido come la pianta a cui non dai più acqua, e sai che sta accadendo e non puoi fare niente per evitarlo, perché forse non c’è neppure una soluzione: torni indietro con la mente, cerchi di capire se e dove hai sbagliato, cosa può essere andato storto, cosa non ha funzionato, e, nonostante tutto, non trovi una soluzione che sia una, e rimani, inebetito, ad osservare la sera che dovrebbe regalarti tutte quelle maledette emozioni perdute, e invece ti regala una gabbia dorata, fatta di luci, fatta dell’odore del cibo in lontananza, del rumore di posate e persone che sorridono, di felicità altrui che non ti appartiene più, e la sola cosa che ti viene da fare è esplodere in mille pezzi, peggio di un puzzle, peggio di un bicchiere di vetro sottile andato in frantumi e mai più recuperabile.

Ci si inaridisce, si diventa, davvero, delle statue di sale, che vivono per inerzia, camminando nella sera, da soli, a cercare una compagnia che nemmeno esiste, un dolore che continui a trascinarti dentro, mentre, ancora una volta, vivi il supplizio della solitudine, la mortificazione del lasciarti alle spalle la gente che banchetta, che sorride, che è felice, sapendo che tutta quella felicità non ti appartiene, non è tua. Tutto quell’equilibrio fatto di persone che sembrano star bene, o che, semplicemente, stanno passando una serata tra amici non ti riguarda, non è affar tuo. 

Ho provato tante e troppe volte, negli ultimi tempi, la terribile sensazione del sentirmi estraneo in mezzo a compagnie che sentivo non appartenermi, e non c’è niente di peggio del sentirti non a tuo agio, in mezzo a discorsi che nemmeno comprendi, in mezzo, quasi, ad una forzatura, realizzata per eludere il tuo bisogno di compagnia, il tuo bisogno di staccare la mente dal silenzio che brucia le orecchie, che le fa fischiare, che urla la propria presenza, che non riesci più a concepire.

E così, ancora una volta, ti ritrovi seduto, ad osservare la strada, ad osservare la gente, ad osservare la vita, la movida, il tempo, la gioia altrui, mentre tutti corrono, mentre tutti continuano a provare quella meravigliosa scarica di adrenalina che non senti più da quel maledetto momento, quando tutti i colori hanno perso la loro lucentezza, quando la sera ha perso il suo odore ed è diventata molto meno magica, e le stelle, la luna, il cielo blu oltremare sembrano essere diventati, in qualche maniera, meno coloranti, stinti, slavati, scoloriti, ed in fondo sai bene perché questo sia accaduto.

E’ un dolore che la gente non può comprendere, perché è talmente personale ed intimo da non potersi descrivere con mere parole: è un dolore così silenzioso e bastardo, così assurdo, così in grado di distruggerti frammento dopo frammento, che, probabilmente, nessuna parola è davvero in grado di far capire cosa si prova dentro, specialmente quando rifletti e sai che, probabilmente, il fine di questa pena è settato sul mai, perché nessunissima luce sembra volersi intravedere alla fine di questo tunnel così assurdo, scavato dal male accumulato in anni ed anni di sofferenza silenziosa ed urlata, quando ho cercato e ricercato mille volte una mano, una voce, lo squillo di un telefono, un messaggio, uno sguardo, anche solamente una parola che non sono mai arrivate, ed ho dovuto, in qualche modo, in qualsiasi modo, cercare di trovare una soluzione a tutto quel cazzo di dolore.

E in tutto questo, miserabili, dov’eravate voi? Dov’eri tu, dov’ero io, dov’erano tutte quelle meravigliose ed inebrianti parole, tutte quelle stupide e vuote frasi fatte di niente, consistenti come il burro sulla padella, vuote, false ed ingannatrici? Dove sono esplose tutte quelle false promesse di eternità, tutto quel bisogno di stringersi, tutta quell’enorme necessità di essere salvata? Eh, dove? Dimmelo, abbi, almeno questo coraggio. Ma no, tanto non avrò risposta, e mi va anche bene così: preferisco tenermi le mie stupide consapevolezze che vivere un bene fasullo, falso, bugiardo, e, probabilmente, mai davvero esistito…

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