Quello che l’adolescenza non mi ha detto: i ricordi di quello che ero, le speranze di quello che avrei voluto essere, ed i sogni che si distruggono contro la realtà…
Quello che l’adolescenza non mi ha detto: speranze, ricordi, vita.
Esiste una sorta di spartiacque nella vita di tutti noi, ed è il delicato passaggio da una vita adolescenziale ad una più adulta. A grandi linee, credo che questo passaggio – più simbolico che concreto – abbia vita alla fine delle scuole superiori, con la fine di un ciclo e l’inizio di uno totalmente e completamente diverso, che sia universitario, che sia lavorativo, che sia di pausa. Qualunque sia il suo verso, le cose cambiano, e quel “treno della vita” che si fermava, di tanto in tanto, e ti dava qualche opportunità per saltare su se lo avevi perduto, inizia a correre velocissimo e non fa più nessuna fermata. Zero.
Qualche pomeriggio fa, nel silenzio di una domenica vuota, ero seduto in balcone, ed osservavo il lento incidere di un pomeriggio di silenzio: avete presente la domenica pomeriggio, in autunno, verso le quattordici, quando qualcuno ha già finito di pranzare, e qualcuno si butta davanti alla TV in attesa delle partite, mentre altri ne approfittano per mettersi un po’ a letto, lasciando sfiorire, lentamente, la giornata? Ecco, una situazione simile.
Ero fermo ad osservare il cielo, la forma delle nuvole leggere in una giornata fresca ma dai toni primaverili, e la mente – non so perché – è tornata indietro ad un tempo ormai andato: saranno passati, ormai, oltre quindici anni, ma ricordo perfettamente quegli ultimi giorni di scuola superiore. Li ricordo come se fossero ieri.
In particolare, ricordo con estrema precisione che, al mattino, nel grande piazzale antistante il mio Istituto Superiore, c’era un punto – che conoscevamo in pochi – in cui, se stavi fermo, in un determinato periodo dell’anno, ad un preciso orario, venivi colpito dal primo raggio di sole che spuntava dietro i palazzi, e quel periodo era proprio la fine di maggio alle otto del mattino, esattamente coincidente con gli ultimi giorni dell’anno scolastico.
Quell’anno era tutto, chiaramente, diverso: si sa che gli ultimi giorni di scuola erano appannaggio di quei disperati che tentavano, con ogni mezzo, di recuperare gravi insufficienze che avrebbero potuto compromettere l’ammissione all’anno successivo, mentre chi non aveva nulla da temere, dopo una certa data, preferiva non andare più attendendo i risultati finali. Non per noi: quell’anno, infatti, restammo fino all’ultimo giorno, perché dovevamo preparare il terribile Esame di Stato, dovevamo capire, comprendere, farci delle idee, buttarci in estenuanti full immersion di studio che quasi ci distruggevano.
Di quei giorni mi rimane, soprattutto, una fotografia impressa nella mente, una scena che mi porto dentro da una vita: erano, ormai, le quattordici – proprio come questo pomeriggio di ricordi – e lungo i corridoi era, ormai, rimasta soltanto la nostra classe. Consapevoli di stare vivendo gli ultimi istanti tra quelle aule che ci avevano ospitato per gli ultimi cinque anni delle nostre vite, decidemmo, con una compagna di cui ero segretamente (ma neanche tanto!) innamorato, di camminare lungo quei corridoi, di guardare quelle aule mestamente vuote, che sapevano di cultura, che sapevano di giovani, che sapevano di vita vissuta, di esperienze in crescita. Camminando, salimmo al secondo piano, arrivando ad un piccolo lucernaio posto li vicino: ricordo perfettamente un cielo incredibilmente azzurro. Poi, la mia compagna mi strinse la mano, ed io la tirai a me, sul mio petto, e restammo in silenzio, senza trovare il coraggio di dire niente. Sentivo che piangeva piano, ma non ebbi il coraggio di dire mezza parola, perché, a conti fatti, per la prima volta nella mia vita non avrei, davvero, saputo cosa dire. Restammo immobili per alcuni minuti. Così. La campanella ci fece tornare alla realtà.
Poco distante dal plesso scolastico, all’interno dell’Istituto, c’era un campo di calcio, immerso nel verde dei giardini, e ricordo che, spesso, con i miei compagni, restavamo seduti sugli spalti, a raccontare, a raccontarci, a chiederci cosa sarebbe stato da li a poco delle nostre vite.
Avevamo sogni diversi, sogni particolari e particolari ambizioni: qualcuno voleva fare un concorso in Polizia, altri volevano andare al Nord, altri ancora iniziare a lavorare nell’azienda di famiglia: eppure, l’adolescenza non mi aveva detto che la vita sarebbe stata così infame e senza pietà per nessuno di noi.
Si, in tanti me lo avevano accennato, ma devi viverla, devi sbatterci la faccia con tutta la forza per comprenderlo: mentre la mia mente, ancora, ritorna a quei giorni, e mi sembra quasi di sentire l’odore dei fiori d’arancio che, a maggio, spuntavano lungo quel giardino, l’arrivo di due automobili con lo stereo a tutto volume, talmente alto da distorcere la musica, mi fa, violentemente, tornare alla realtà, e distrugge quella pace che si era incredibilmente creata.
Ritorno in casa, e lascio dietro me i ricordi di quello che ero, ripensando a quel che volevo essere. Si, ne ho passate un bel po’, ma non mi posso lamentare: a quel giovane di belle speranze, forse, non è andata, poi, così male!